martedì 23 gennaio 2007

Robert Johnson

Robert Johnson è senza dubbio una delle personalità musicali più importanti del secolo scorso. Figlio di quell’America rurale fotografata così bene da Nick Cave (proprio quello dei Bad Seeds) nelle pagine del suo sorprendente romanzo “E l’asina vide l’angelo”, Johnson incarna l’immagine del musicista dedito alla sacra triade del rock, sesso, droga e rock‘n roll, ma con le dovute sostituzioni (la droga diventa alcol, il rock‘n roll si trasforma in blues mentre il sesso rimane fortunatamente lo stesso). Johnson inaugura anche un altro paradigma del rock e cioè quello che vuole i geni musicali defunti a 27 anni e non di più. La sua morte, così come l’intera esistenza, è caratterizzata da moltissime ombre e poche luci che sembrano provenire direttamente dall’inferno. Johnson ebbe infatti un rapporto privilegiato con il diavolo. Incontrato in una misteriosa mezza-notte a quello che diventerà un altro stilema classico del blues (il “crossroads”, l’incrocio), il demonio gli concede una fenomenale perizia chitarristica in cambio della sua anima, reclamata qualche anno più tardi.

Questa la leggenda, estremamente affascinante, mescola e interpreta la realtà storica con elementi di fantasia e finisce per creare il mito. Agli inizi della sua carriera e fino alla tragica morte della giovanissima moglie, la sedicenne Virginia, RJ non è affatto un fenomeno alla chitarra, tanto che uno dei suoi maestri gli consiglia di lasciare perdere e dedicarsi all’armonica a bocca, strumento per il quale sembra decisamente più versato. Quando Virginia lo abbandona, RJ sprofonda nella disperazione e comincia un’esistenza nomade nelle città del delta del Mississippi dove impara moltissimo sulla chitarra. Tutto questo fino all’incontro con il diavolo che concluderà la sua formazione musicale. In effetti pare che il diavolo avesse le sembianze del misterioso e cupo bluesman Ike Zinneman, personaggio schivo che vestiva di nero e amava suonare di notte nei cimiteri e che si guadagnò in fretta la reputazione di Satana. Johnson ne sarà il discepolo per un anno, affilando le sue armi e trasformandosi nel sublime cantore di un blues caratterizzato da melodie malate e da tematiche dolorose, quasi gotiche che spesso fanno riferimento proprio al diavolo come in "Me And The Devil Blues": "Early this moring/ When you knocked upon my door/ I said, Hello, Satan/ I believe it's time to go", all’alcol in "Drunked Hearted Man": 
I'm a poor drunken hearted man and sin was the cause of it all. But the day you get weak for no good women,that's the day that you surely fall” o alle donne facili che incontrava sulla sua strada.

Antonio Ciarletta su Ondarock.it
”Il rock è la musica del demonio, ed è vero, o almeno è vero nella misura in cui riesce a essere non elemento attraverso in cui esso (la forza distruttrice) si manifesterebbe (visione a cui è intimamente legato l'immaginario superficiale ed estetizzante del rock'n'roll), ma nella misura in cui si pone come fattore catartico, rispetto a un'interiorità repressa da un vivere quotidiano non in linea con le proprie sensibilità, dell'essere diversi in una società in cui i comportamenti necessitano di uno standard codificabile, al fine della convivenza civile. Johnson cantava del diavolo perché intendeva esorcizzarne la potenza distruttrice, perché attraverso il racconto del peccato riusciva a esteriorizzarne gli effetti, a far sì che la sofferenza morale si trasformasse in energia rigeneratrice. Il peccato autoalimentava la musica e il suo essere, per cui ne era imprigionato malgrado tutto, ma, nell'incontrovertibile reiterazione, aveva pur la necessità di deviarne gli effetti. 
Niente da dire: con la triade donna (sesso), alcol (droga), blues (rock'n'roll), con la sagoma minacciosa del demonio sullo sfondo, Johnson ha letteralmente costruito l'immaginario del rock, ma il beat irrefrenabile della sua musica, la voce coinvolgente, i sentimenti che sgorgano liquidi da quelle parole, fanno sì che la fruizione delle sue canzoni, da puro ascolto esegetico/accademico, da fascinazione per l'America che fu, si trasformi in sentire interessato ed emozionante, in note che toccano il profondo. 
Perché questo è il blues; esso nasce dal connubio simbiotico di arte e vita, come espressione di un sentimento, come fulgida esteriorizzazione dell'io nascosto, represso e violentato dalle necessità materiali; è la perfetta fusione di anima e corpo, tra l'interiorità e i significati che nasconde, e il significante, che si materializza nelle note di una chitarra che gemono e veicolano dolore. Ecco perché chi successivamente ne ha ricalcato la tecnica senza aver nulla da raccontare, senza un fuoco da estrinsecare, ha composto una musica mirabilmente vuota, un simulacro dalle fattezze fredde e inanimate, un significante che trasporta la sua ombra in un circolo vizioso/virtuoso di scale e accordi reiterati, di prurigini tecnicistiche che rimandano a se stesse, non al caldo desiderio dell'anima di farsi corpo. 

Proprio questo è invece Robert Johnson, questo è il blues e perciò se ne intravede il fantasma anche in musiche che non lo chiamano in causa in modo diretto. Questo è Robert Johnson, questo è il blues, e artisti come Brian Jones, Jim Morrison, Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jeffrey Lee Pearce, Ian Curtis, Nick Cave, Simon Bonney, Kurt Cobain, Layne Staley, tra gli altri, godranno di gloria imperitura perché ne incarnano lo spirito, al di là delle opinioni critiche dei mille esegeti buontemponi di turno. 
La musica di Robert Johnson è la musica del peccato. Sublime".

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