lunedì 26 settembre 2011

Goodbye SB

È sempre sbagliato dare per scontate le persone, ma a volte capita. Per paradosso è più facile farlo con chi ci è vicino, con chi consideriamo parte della nostra vita di tutti i giorni. Lo prendiamo e lo trasformiamo in un punto fermo, immutabile. Che invece cambia, si evolve o invecchia e, presto o tardi, smette di esistere in un modo o nell’altro. Non è che meno rogna, è il ciclo della Vita, triste ma reale. E fumetti pubblicati da Sergio Bonelli fanno parte della vita di molti, specialmente di chi è stato adolescente negli anni ’80 e si è “sviluppato” nei primi anni ’90, quando internet non era ancora fenomeno di massa e i cellulari erano privilegio di pochi. I fumetti di Bonelli sopravviveranno sicuramente alla sua morte così come Diabolik è sopravvissuto alla morte delle sue “mamme”, le sorelle Giussani; eppure io non riesco proprio a scrollarmi di dosso questa sensazione di perdita. E allora, esattamente non so perché (forse per cercare di rendere onore all’opera di Bonelli, forse per celebrarne il personaggio), ho deciso di condividere un ricordo personale, piccolo piccolo, a lui legato.

1992. Scrivo e pubblico da un paio d’anni, principalmente su Lombardia Oggi, il supplemento de La Prealpina, mentre tanto di laurearmi in Scienze Politiche. Tutto è partito da un malinteso. Il mio capo redattore mi ha chiesto se conosco Corrado Roi e io ho risposto di si. Leggo Dylan Dog da tempo e Roi è il mio disegnatore preferito, per questo lo conosco. Nel senso che so chi è e cosa fa. Che sia di Laveno non importa. Peccato che con “conosci Corrado Roi?” lui intendeva “conoscenza diretta e personale”, entratura da sfruttare per realizzare in tempi rapidi un’intervista da inserire in un servizio più ampio dedicato a DD. Fantastico, io e due pagine intere da riempire con articoli dedicati al successo rampante dei fumetti e del cinema horror, la possibilità di partecipare al Dylan Dog Horror Fest e incontrare personaggi del calibro di Robert Englund (Freddie anyone?). Taglio la parte dell’intervista e arriviamo all’uscita del servizio: due pagine fitte fitte che, rilette oggi, risultano bruttine anzichenò ma che all’epoca piacquero così tanto a Sergio Bonelli da portarlo a telefonarmi a casa. Peccato che io non c’ero. La segretaria di Bonelli insistette per lasciare il numero a mia madre, dicendo di richiamare e al mio rientro trovai un biglietto che diceva che un certo “Bonetti, Bonzelli o qualcosa di simile” mi aveva cercato.
Bestia che roba! Bonelli mi vuole parlare! Figata! Daidaidai! Oddio… e se ho scritto qualcosa di sbagliato? E se mi vuole fare causa? E se mia nonna avesse le ruote?
Beh, chiamo. Battito cardiaco accelerato. “Pronto? Posso parlare con il dottor Bonelli? – Chi lo desidera?” Non ricordo esattamente cosa disse e come si svolse la chiacchierata durata un paio di minuti, ma mi invitò alla cena di gala che seguiva la conferenza stampa di presentazione del Dylan Dog Horror Fest, dicendomi di farmi riconoscere una volta giunto al Principe di Savoia a Milano, cosa che feci guadagnandomi un sorriso frettoloso mentre Bonelli era impegnato a fare PR con persone molto più importanti di me.

In quanti oggi chiamerebbero a casa o sul cellulare per complimentarsi di un buon articolo?
Grazie per quanto ha fatto, dott. Bonelli. Per i personaggi e le storie che ci ha regalato.   

sabato 3 settembre 2011

Have mercy!


Avere il blues è una roba strana.  Dicono che per averlo bisogna essere afroamericani (insomma, scuri) e che è una cosa che ti prende quando meno te lo aspetti.  A parte il fatto che sul serio non sai quando arriva o da dove, la questione del colore è vera fino a un certo punto perché c’è un sacco di gente pallida che l’ha capito e che lo suonava, o lo suona, se è tutt’ora vivente,  come si deve. Gente come Eric Clapton (inglese), John Mayall (idem), Gary Moore (irlandese - R.I.P.), Rory Gallagher (irlandese – R.I.P.), Sean Costello (americano – R.I.P.), Tolo Marton (italiano), Guido Toffoletti (idem – R.I.P.).  L’idea (sbagliatissima, secondo me) è che il blues sia noioso, triste e cupo. Il blues celebra la vita in ogni suo aspetto, nel bello e nel brutto, ma senza fare finta che quest’ultimo non esista.  Però ti offre una speranza, sempre. Anche quando sei  nella merda più puzzolente, c’è qualcosa che ti tirerà su e dovrai essere lì pronto a godere del momento. Una donna, un sapore, uno sguardo. Qualcosa. In Red House Jimi dice, non senza un apunta d’ironia: “If my baby she don’t loves me no more, I’m sure her sister will”. Easy. Il blues ha a che fare con quello che siamo e chi lo ascolta deve avere il coraggio di lasciarsi andare, così come chi lo interpreta, completamente. Per scoprirsi o per ritrovarsi.