sabato 3 settembre 2011

Have mercy!


Avere il blues è una roba strana.  Dicono che per averlo bisogna essere afroamericani (insomma, scuri) e che è una cosa che ti prende quando meno te lo aspetti.  A parte il fatto che sul serio non sai quando arriva o da dove, la questione del colore è vera fino a un certo punto perché c’è un sacco di gente pallida che l’ha capito e che lo suonava, o lo suona, se è tutt’ora vivente,  come si deve. Gente come Eric Clapton (inglese), John Mayall (idem), Gary Moore (irlandese - R.I.P.), Rory Gallagher (irlandese – R.I.P.), Sean Costello (americano – R.I.P.), Tolo Marton (italiano), Guido Toffoletti (idem – R.I.P.).  L’idea (sbagliatissima, secondo me) è che il blues sia noioso, triste e cupo. Il blues celebra la vita in ogni suo aspetto, nel bello e nel brutto, ma senza fare finta che quest’ultimo non esista.  Però ti offre una speranza, sempre. Anche quando sei  nella merda più puzzolente, c’è qualcosa che ti tirerà su e dovrai essere lì pronto a godere del momento. Una donna, un sapore, uno sguardo. Qualcosa. In Red House Jimi dice, non senza un apunta d’ironia: “If my baby she don’t loves me no more, I’m sure her sister will”. Easy. Il blues ha a che fare con quello che siamo e chi lo ascolta deve avere il coraggio di lasciarsi andare, così come chi lo interpreta, completamente. Per scoprirsi o per ritrovarsi.   

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